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TENTATO OMICIDIO DELLA CONVIVENTE, NO ALL'AGGRAVANTE PREVISTA PER IL CONIUGE

ARTICOLO TRATTO DA IL QUOTIDIANOGIURIDICO.IT del 17/01/2017

Armato di coltello aggredisce la convivente, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 808 del 10 gennaio 2017, esclude che gli possa essere applicata l’aggravante prevista dall’art. 577 c.p. quando il reato è commesso contro il coniuge. Corretto, invece, qualificare il fatto come tentato omicidio e non come lesioni, a fare la differenza l’atteggiamento psicologico del reo e la potenzialità lesiva dell’azione.

Cassazione penale, sez. I, sentenza 10 gennaio 2017, n. 808
L’aggravante prevista dall’art. 577 ultimo comma c.p. che prevede la reclusione da ventiquattro a trent’anni per chi uccide il coniuge non è applicabile al convivente more uxorio. Lo ha ribadito la Corte di cassazione con la sentenza in commento relativa ad una caso di tentato omicidio, annullando la sentenza della Corte territoriale che aveva diversamente deciso.

Inappuntabili le motivazioni a sostegno della decisione. Non è possibile ritenere, come ha invece fatto la Corte di appello, che l’evoluzione del costume sociale giustifichi l’equiparazione fra coniuge e convivente more uxorio se da tale equiparazione deriva l’applicazione analogica di una circostanza aggravante, con conseguente aumento della pena edittale. La norma penale sanzionatoria, infatti, è sottoposta al principio di legalità contenuto non solo nell’art. 2 c.p., ma soprattutto nell’art. 25 della Costituzione e, dunque, è del tutto insuscettibile di estensione analogica. Per tanto, l’interpretazione analogica ed estensiva dell’art. 577 c.p. è vietata dal principio di legalità della legge penale, ovvero da uno dei principali baluardi di un sistema democratico.

Nel caso concreto l’equiparazione fra coniuge e convivente more uxorio appare improponibile anche per altre ragioni. La Corte costituzionale, infatti, ha già escluso in passato che possano applicarsi al convivente more uxorio (persino) le norme penali di favore previste dal codice penale con riguardo al coniuge. Ci si riferisce all’art. 649 c.p. e alla sentenza della Corte costituzionale numero 352 del 2000, citata anche dalla sentenza in commento. Se si esclude che il convivente more uxorio possa avvantaggiarsi della causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p. a favore del coniuge non può, a maggior ragione, sostenersi che al convivente si applichino le circostanze aggravanti previste a carico del coniuge. Infatti, al di là della incompatibilità fra tale conclusione e i corollari del principio di legalità, l’evoluzione del costume sociale invocato dalla Corte di appello non ha trovato riconoscimento presso il Giudice delle leggi, neppure relativamente alle norme penali di favore.

La differenza di trattamento fra coniuge e convivente, sotto il profilo penale, ha resistito al vaglio della Corte costituzionale sul presupposto che non è irragionevole, né arbitrario che il legislatore “adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio contemplato nell’art. 29 della costituzione e per la convivenza more uxorio”, trattandosi di scelta che rientra nella discrezionalità dell’azione legislativa.

Se la sentenza della Corte costituzionale citata non è recentissima, risalendo al 2000, e se il costume sociale può essere da allora mutato, non va dimenticato che la Legge 20/05/2016, n. 76 che reca in rubrica “Regolamentazione delle unioni civili fra persone dello steso sesso e di disciplina delle convivenze” non ha operato alcun intervento per avvicinare la situazione della persona sposata a quella del convivente more uxorio quando ci si trovi di fronte al giudice penale, mentre è intervenuta per evitare che, nella materia penale, il coniuge abbia un trattamento differente rispetto al partner di un’unione civile fra persone dello stesso sesso.

Per tanto l’art. 577 c.p. rimane non applicabile al convivente more uxorio.

La sentenza in commento ha ricordato che la Corte di cassazione, in passato, aveva già considerato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 577 comma 2 c.p. sotto il profilo della disparita di trattamento fra coniuge e convivente more uxorio escludendo che la questione dovesse essere posta all’attenzione della Corte costituzionale.

Si dubita, in ogni caso, che una eventuale nuova questione di legittimità costituzionale dell’art. 577 c.p. possa trovare accoglimento.

Ancora una volta sono il principio di legalità e il divieto di retroattività che caratterizzano la norma penale incriminatrice ad impedire che un intervento della Corte costituzionale successivo alla commissione del fatto possa portare all’applicazione retroattiva di una aggravante. Infatti è escluso che la Corte costituzionale possa pronunciare sentenze additive in malam partem. Di conseguenza la Corte costituzionale non potrebbe estendere il trattamento sanzionatorio più severo previsto dall’art. 577 c.p. a situazioni che, nel momento in cui il fatto è stato commesso, non rientravano nell’ambito di applicazione della circostanza aggravante.

Solo un intervento del legislatore potrebbe, eventualmente, modificare la situazione.

Secondo tema di interesse affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in commento è quello della possibilità di configurare il reato di tentato omicidio, invece del reato di lezioni aggravate, pur in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato .

In proposito la giurisprudenza è monolitica nell’escludere che il dolo eventuale sia compatibile con il delitto tentato (ex pluribus Cass. pen. sez. VI, 20 marzo 2012, 14342, in CED Cassazione 2012; Cass. pen. sez. I, 31 marzo 2010, 25114, in CED Cassazione 2010). La sentenza in esame non si discosta dalla giurisprudenza richiamata supra. I supremi giudici operano una distinzione fra le ipotesi in cui l’evento si pone come accadimento possibile o probabile rispetto alla condotta tenuta dal reo e quelle in cui la condotta può portare all’evento ovvero integrare altra meno grave fattispecie (morte o lesioni aggravate), ma l’agente prevede e vuole alternativamente l’uno o l’altra. In quest’ultimo caso a muovere l’agente è il dolo diretto alternativo, del tutto compatibile con il reato tentato. Secondo quanto si legge nella motivazione, per verificare concretamente se ci si trovi di fronte ad una fattispecie di lesioni o ad un tentativo di omicidio vanno valutati l’atteggiamento psicologico del reo e la potenzialità lesiva dell’azione. A far propendere per l’omicidio tentato è la notevole potenzialità lesiva dell’azione testimoniata dal tipo di arma utilizzata (un coltello da cucina “apprezzato per le sue temibili caratteristiche e potenzialità lesive”), dalla direzione con la quale sono stati inferti i colpi (dall’alto vero il basso), dalle zone del corpo della vittima verso le quali i fendenti sono stati indirizzati (il volto e le reni), dal fatto che l’evento mortale non sia intervenuto perché la persona offesa è riuscita a parare alcuni dei fendenti con un cuscino e per il successivo intervento di un terzo che ha soccorso la vittima.

La Corte di cassazione, dunque, ancora una volta ha escluso che il delitto di omicidio tentato possa essere contestato in presenza di dolo eventuale. Essa, tuttavia, si è posta su quella consolidata scia giurisprudenziale secondo la quale non v’è dolo eventuale, ma dolo diretto, da intendersi sotto la forma del dolo diretto alternativo, nel caso in cui la condotta dimostri che l’agente si è prefigurato e ha voluto, alternativamente, sia la morte della vittima sia la commissione, a suo danno, del meno grave reato di lesioni. In presenza di un simile elemento psicologico si può configurare il reato tentato.

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